Seicento fiorentino

Con Seicento fiorentino si indica genericamente la produzione artistica a Firenze e nei suoi domini nel corso del XVII secolo.
Dopo circa tre secoli di ininterrotto primato artistico in Italia e in Europa, Firenze a partire dalla seconda metà del XVI secolo iniziò una fase che nella storiografia storico-artistica è stata in genere considerata di secondo piano, rispetto ad altri centri più influenti, entrando in un orizzonte più regionale, da cui sarebbe uscita solo nel XIX secolo con i macchiaioli.
Questa impostazione è oggi superata, grazie a studi e pubblicazioni che si sono susseguite a partire dagli anni 1960, che hanno ricollocato la produzione seicentista fiorentina nel pieno delle correnti artistiche di quel secolo, valorizzandone la qualità ininterrotta e le proprie peculiarità. In questa ottica l'arte fiorentina del Seicento appare come bilanciatamente classicista, capace di fondere e rielaborare gli spunti più svariati, dall'arte controriformata al barocco romano, dalle morbidezze del Correggio e del Barocci al naturalismo dei caravaggisti e degli emiliani, in forme originali e proprie della Toscana.
Contesto storico
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Sul finire del Cinquecento la Toscana era ben amministrata dal governo di Ferdinando I de' Medici, che seppe portare avanti le riforme economiche avviate dal padre Cosimo, mantenendo sempre un alto livello di committenza artistica. Negli anni 1620 la prematura scomparsa di Cosimo II portò a una reggenza tutta al femminile (della madre Cristina di Lorena e della vedova Maria Maddalena d'Austria), che fu molto criticata dalla storiografia.
Tuttavia erano in corso in Europa profondi stravolgimenti di mercato che inevitabilmente trascinarono l'economia fiorentina in una fase di recessione: il mercato dei tessuto di lana, vera base della ricchezza fiorentina, era stato invaso dalle nuove stoffe di produzione inglese e olandese, più leggere e meno costose, alle quali i fiorentini non seppero rispondere con innovazioni all'altezza. Il sistema bancario e il commercio internazionale dei fiorentini subì anche un considerevole declino, rivaleggiato dai banchieri tedeschi, protetti dagli Asburgo, e genovesi, protetti dalla Spagna. I toscani, privi dell'appoggio di una potenza politica internazionale, rimasero inevitabilmente indietro rispetto al nuovo, immenso giro d'affari sviluppatosi attorno all'oro e all'argento proveniente dal Nuovo Mondo. Nonostante alcune iniziative prese dai Fiorentini ad Anversa e nonostante l'ascesa del porto di Livorno, che divenne in quegli anni uno dei grandi empori del commercio mediterraneo (pur trattando pochissimo le merci autoctone), nel Seicento i Granduchi e le famiglie toscane rivolsero i loro affari essenzialmente all'agricoltura e occasionalmente ad altre attività che, pur di successo, non produssero quella ricchezza diffusa dei secoli precedenti. Tra queste attività si possono citare le bonifiche, l'implementazione delle cave di Carrara, la ripresa dell'estrazione del ferro all'Isola d'Elba, la produzione della porcellana e, a livello più minuto, l'appoggio ininterrotto all'artigianato di lusso e alla produzione artistica, sia figurativa che letteraria e teatrale.
L'epoca di Cosimo III de' Medici è ricordata come legatissima alla religione, con un certo rinnegamento degli studi scientifici che avevano prosperato al tempo di Ferdinando II. A Cosimo va tuttavia riconosciuto un forte impulso per l'implementazione della arti, con l'invio di artisti toscani a Roma per l'esplicito desiderio di aggiornare lo stile locale alle ultimissime tendenze.
Pittura
| ]Tutti gli studi sul Seicento fiorentino concordano su come sia difficile, a tratti indistricabile, individuare delle correnti precise in cui raggruppare i singoli artisti. È azzardato parlare di "scuola" in termini assoluti e netti, perché gli apporti dei singoli artisti sono altamente individuali, ma che si richiamano l'uno l'altro con fili sottili e molteplici. Se da un lato si possono trovare dei filoni fondamentali e delle sottodivisioni temporali, queste vanno considerate come insiemi dai contorni sfumati, in cui si possono essere affacciati i medesimi artisti in fasi diverse della loro produzione, con caratteri diversi che spesso convivono e si fondono in medesime opere. Resta comunque costante la predominanza del disegno netto e razionale, e l'accurato studio delle composizioni in opere preparatorie, che mantengono l'accento sull'importanza della produzione grafica.
Controriformati
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Sicuramente il punto di partenza delle esperienze seicentiste fiorentine va ricercato nell'ultimo trentennio del Cinquecento, col superamento del manierismo e dello stile vasariano, che ebbe come massimo rappresentante Santi di Tito. Egli, ispirato dallo Zuccari e dai dettami della Controriforma, portò a Firenze uno stile più sobrio e ispirato al vero, tanto nella pittura religiosa (nei cicli di pale d'altare che segnavano in quegli anni il rinnovo degli altari nelle grandi chiese cittadine), quanto in quella profana (si pensi alle posate composizioni antimanieriste dei suoi pannelli per lo studiolo di Francesco I). Con Santi di Tito e i suoi fedeli seguaci (come il figlio Tiberio, Agostino Ciampelli, Cosimo Gamberucci, Ludovico Buti e Andrea Commodi) si delinea quindi un primo filone di rottura con la pittura fiorentina del Cinquecento, a cui si possono ricondurre anche gli affreschi di Bernardino Poccetti (soprattutto i cicli religiosi nei chiostri dei conventi), le composizioni semplificate di Francesco Curradi (che stemperano l'influenza caravaggesca) e le rievocazioni quattrocentesche di Benedetto Veli e di Jacopo da Empoli, in cui la continuazione del linguaggio "fiorentino" assume connotazioni morali, pur schiarito dall'esempio di Guido Reni. Questo è lo stile che varcò i confini del Granducato con l'opera di Filippo Paladini (in Sicilia e a Malta) e di Fra Arsenio Mascagni (nel Nord Italia e a Salisburgo), e che ebbe qualche decennio più tardi un reprise nelle opere di Giovanni Martinelli e Lorenzo Lippi. Il primo è caratterizzato in tutta la sua produzione da un disegno nitido, anche quando si accosta a luci taglienti di derivazione caravaggesca. Il secondo, il Lippi, fu un vero e proprio purista dello stile "naturale": padroneggiò composizioni di elegantissima misura, schiarite da una luce più morbida, che amplifica la plasticità delle figure.
Nella fortuna critica del capostipite, Santi di Tito, definito per tutto il primo Novecento come un semplificatore ai limiti della stereometria, si ravvisa tutto il giudizio negativo che ha oppresso gli studi sul Seicento fiorentino fino a pochi decenni fa, con una rivalutazione che ha preso piede solo dopo la grande retrospettiva di palazzo Strozzi del 1985, a cui sono seguiti numerosi studi critici.
Epigone di questo stile può essere considerato Carlo Dolci, che caricò le sue opere religiose di devozione, con uno stile lenticolarmente accurato, ricco di dettagli e di luci che rendono le superfici brillanti e smaltate, pervase di celestiale perfezione. Nei suoi santi esprimenti sempre un profondo patetismo religioso e nella sua costante ricerca di perfezione inarrivabile stanno anche gli indizi della crisi di questo stile: i placidi modelli offerti da Santi di Tito, dal Bronzino e da Fra Bartolomeo ormai non potevano più rispecchiare la religiosità sofferente e individualistica degli ultimi decenni del Seicento, in un'Europa straziata dalle guerre e dalle carestie, maturando il ricorso a nuove forme d'arte.
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Agostino Ciampelli, Annunciazione, 1597, Reggio Calabria, chiesa degli Ottimati -
Cosimo Gamberucci, San Pietro guarisce lo storpio, 1599, Firenze, Galleria dell'Accademia -
L'Empoli, Martirio di san Sebastiano, 1616-1620, Firenze, San Lorenzo -
Francesco Curradi, Perdono di Assisi, 1627 circa, Pisa, Santa Croce in Fossabanda -
Lorenzo Lippi, Fuga in Egitto, 1642, Massa Marittima, Sant'Agostino - Carlo Dolci, Sant'Apollonia, 1660-70 circa, collezione privata
Venetisti
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Vasari nelle sue Vite aveva efficacemente delineato un confine tra arte fiorentina, basata sul disegno, e arte veneta, basata sulla stesura del colore. Alcuni esponenti della generazione successiva alla sua iniziarono a tentare di colmare questo distacco recandosi a Venezia e studiandone le opere dei suoi maestri. Un secondo filone fondamentale dell'arte fiorentina del Seicento può essere infatti individuato nel "venetismo" di pittori quali il Passignano e, soprattutto, il Cigoli. Questi riformatori scavalcarono il manierismo guardando piuttosto al colorismo veneto, a Tiziano, Tintoretto e Palma il Giovane, cercando di fondere la naturalezza del pacato racconto alla toscana con un maggiore accento sul colore denso e steso a larghe falde pastose, che arriva a trapassare il confine della linea di contorno per una maggiore resa espressiva e per un miglior coinvolgimento dello spettatore. Stile che va ricondotto anche all'influenza del Correggio e di Federico Barocci, e che ebbe successo nella sua variante fiorentina anche a Roma: lo stesso Cigoli, reduce da successi alla corte di Paolo V Borghese, influenzò anche un veneto come Domenico Fetti.
Il Cigoli operò una vera e propria liberazione della materia pittorica, diffondendo una tavolozza morbida e corposa, intrisa di luce dorata tipicamente seicentesca, ma continuando a muoversi in una salda costruzione spaziale fiorentina e nell'espressione degli affetti (arrivando ad anticipare per certi versi Rubens e Pietro da Cortona). Attivo con successo anche a Roma, fu maestro diretto di Giovanni Bilivert e Sigismondo Coccapani, artisti che contribuirono a formare quel gusto "fiorito" (cioè ornato) che avrà poi esito soprattutto con Matteo Rosselli. Pittori dal colore steso quasi "a macchia" furono Domenico Pugliani e Orazio Fidani.
Più intermedia fu la figura del Passignano, che dai veneti assimilò soprattutto la libertà compositiva e l'amabile umanità, come ritorno alla naturalezza in opposizione alla "maniera". Esplorò nuovi effetti luministici, parallelamente a due stranieri attivi a Firenze, il veronese Jacopo Ligozzi e il ligure Giovanni Battista Paggi. Quest'ultimo, in opere come la Trasfigurazione di San Marco portò per la prima volta un "luminismo magico", che influenzò ad esempio l'Empoli nell'originalissima Immacolata Concezione in San Remigio.
A questa libertà figurativa si ispireranno Giovanni da San Giovanni, capace di ravvivare i soggetti con spunti genuinamente popolareschi, ora grotteschi, ora giocosi, come nella Fuga in Egitto della cappella del monastero della Crocetta (oggi nell'Accademia di Belle Arti), e il Volterrano, che grazie all'esempio del Correggio porterà per primo la pittura fiorentina a esiti così dinamici da essere pienamente ascrivibili nel "barocco".
Il punto di arrivo più estremo di questo filone può essere ravvisato nella pittura fluida di Cecco Bravo, dove il disegno fiorentino sembra quasi perdersi nel vortice delle pennellate, mantenendo però quell'equilibrio compositivo tipicamente toscano (e in questo distaccandosi dall'esempio fornito dalle ultime opere di Tiziano). Ne conseguono esisti particolarmente felici sia nella rappresentazione degli effetti atmosferici (ad esempio nelle scene all'aperto), sia per quella del movimento, quando la scena lo richiede, che diventa turbinoso.
Anche il Cigoli subì una certa sfortuna critica che, a differenza ad esempio dei Carracci, non gli riconobbe mai il merito di una riforma nell'arte capace di travalicare la portata locale: sostanzialmente gli si rimproverava di non aver mai superato la lezione di Andrea del Sarto e del dipingere "senza errori", che penalizzava l'espressività delle sue opere apparendo anzi a tratti leziosa. Ciò è particolarmente evidente nel confronto col Caravaggio, grazie a spunti diretti come la competizione dell'Ecce Homo per mons. Massimo Massimi, dove il Cigoli apparve vincitore secondo i contemporanei, ma perdente rispetto alla storiografia novecentesca.
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Passignano, Angeli musicanti (dettaglio), Tavaernelle Val di Pesa, abbazia di San Michele a Passignano -
Giovanni Battista Paggi, Trasfigurazione, 1596, Firenze, San Marco -
Sigismondo Coccapani, Flautista, 1630-40 circa, Firenze, Uffizi -
Giovanni da San Giovanni, Fuga in Egitto, 1621, Firenze, Accademia di Belle Arti -
Volterrano, San Martino che divide il mantello con un povero, 1652, Firenze, palazzo di San Clemente -
Cecco Bravo, Santi Antonino Pierozzi, Ambrogio e Carlo Borromeo (dettaglio), 1639-40, Firenze, oratorio dei Vanchetoni
Teatralità
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Un altro filone che serpeggia nell'arte fiorentina del Seicento è quello della teatralità. Premesso che in quegli stessi anni nasceva a Firenze il melodramma con la camerata dei Bardi e che molti dei pittori attivi alla corte dei Medici furono anche scenografi, si possono individuare alcuni artisti che, partendo dai dettami della controriforma se ne distaccarono dopo aver soggiornato a Roma o semplicemente rileggendo alcuni maestri del passato quali il Bronzino, Girolamo Macchietti e Mirabello Cavalori. In particolare si possono segnalare Anastagio Fontebuoni (dalla visione nitida aggiornata alle ricerche luminose degli emiliani viste a Roma), Filippo Tarchiani (che tradusse in forme fiorentine il luminismo e le composizioni dei caravaggeschi), Gregorio Pagani (che aggiornò i modelli cinquecenteschi a luci e virtuosismi seicenteschi) e soprattutto Cristofano Allori, allievo diretto del Pagani.
L'Allori si allontanò presto dai modelli offerti dall'illustre padre e da Santi di Tito, per abbracciare il colore denso e materico del Cigoli e del Pagani, a cui aggiunse un forte interesse per i sentimenti, ispirati da Orazio e Artemisia Gentileschi, tanto nei ritratti che nelle opere religiose e profane, evitando l'idealizzazione e creando figure che interagiscono acutamente con l'osservatore. Ne è paradigma la famosa Giuditta con la testa di Oloferne, una delle prime delle "eroine" fiorentine, nonché una delle opere più rappresentative dell'intero Seicento fiorentino.
Un altro artista in questo ambito può essere considerato Jacopo Vignali, che amplificò la luce, il senso della materia e i virtuosismi del Pagani in opere religiose di grande impatto. Dai decenni centrali del secolo Felice Ficherelli produsse opere da camera di grande raffinatezza, dove su figure carnose, impeccabilmente dipinte rivolte spesso verso lo spettatore, incombe qualche avvenimento violento, che crea un senso di patetico struggimento.
A questo filone si possono ricondurre anche due artisti stranieri attivi a Firenze al tempo di Cosimo II de' Medici, Jacques Callot e Filippo Napoletano, che esplorarono i risvolti più bizzarri e popolareschi della società fiorentina, anche grotteschi, assieme a un fresco approccio al paesaggio, e che condivisero questi interessi con Giovanni da San Giovanni e Baccio del Bianco. Il tono evocativo del teatro comunque, come accennato in apertura, venne usato da molti artisti, facendone una delle caratteristiche più tipiche dell'arte fiorentina del Seicento, influenzato anche da letterati quali Gabriello Chiabrera e Michelangelo Buonarroti il Giovane.
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Filippo Tarchiani, Cena in Emmaus, 1620-25, Los Angeles, LACMA -
Gregorio Pagani, Piramo e Tisbe, 1600, Firenze, Uffizi -
Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara, 1620, Budapest, Museum of Fine Arts -
Filippo Napoletano, Dante e Virgilio all'inferno, 1619-1620, collezione privata -
Jacques callot, I balli di Sfessania, 1621-1622, Firenze, GDSU
Stile fiorito
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L'altro importante allievo di Gregorio Pagani fu Matteo Rosselli, artista che più di tutti fu il fulcro della seconda generazione della pittura fiorentina. Dopo aver partecipato a imprese collettive come la decorazione della galleria di Casa Buonarroti, divenne responsabile di alcuni grandi cantieri per i Medici al Casino di San Marco e alla villa di Poggio Imperiale, dove formò un'intera schiera di giovani che poi presero ben altre strade: Giovanni da San Giovanni, Jacopo Vignali, Domenico Pugliani, Francesco Furini e Lorenzo Lippi, tra i maggiori. In questo senso, l'atelier del Rosselli sembrò rievocare l'ambiente stimolante della bottega del Verrocchio di un secolo e mezzo prima.
Il suo stile è stato definito "fiorito", poiché ben attento a gratificare i committenti inserendo elementi virtuosistici che abbelliscono le scene, come la raffigurazione di tessuti preziosi, di oreficerie, la presenza di angioletti dolci e accattivanti, la cura maniacale dei dettagli, il tutto sulla base di un disegno impeccabile e di una salda organizzazione dello spazio. Le stesse fisionomie usate dal Rosselli divennero uno standard che caratterizzò la pittura fiorentina fino quasi al XVIII secolo. Lo stile fiorito si discosta dal venetismo, pur compartecipando in molti pittori di quegli anni: ad esempio in certe opere del Giovanni Bilivert, seguace più fedele del Cigoli, l'attezione alle stoffe e ai velluti, che per esempio in Veronese diventavano pretesti per dispiegare ampie campiture colorate, qui arrivano a una tale perizia "da tappezziere" che finiscono per nuocere alla composizione, come già descrisse nei suoi studi il Lanzi parlando di "stile ornamentale".
Tra gli artisti di questo filone, a vario titolo, si possono includere Giovanni Battista Vanni, che nel suo soggiorno a Roma imparò alcune aperture alla teatralità e al patetismo del barocco berniniano, e Mario Balassi, autore di ritratti ornati e ricchi di simbolismi quasi fino all'asfissia.
Nella seconda metà del secolo, il lucchese Antonio Franchi, al servizio di Vittoria della Rovere dal 1686 e poi dell'Elettrice palatina, aggiornò il ritratto di corte a esempi francesi e piemontesi, dove la rappresentazione del lusso è legata a una certa inclinazione decadente.
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Giovanni Bilivert, Giuseppe e la moglie di Putifarre, ante 1619, Roma, Galleria nazionale d'arte antica di palazzo Barberini -
Domenico Pugliani, Gloria di san Francesco (dettaglio), 1639-1640, Firenze, oratorio dei Vanchetoni -
Mario Balassi, Ritratto di Vittoria della Rovere come santa Vittoria, 1637 circa, collezione privata -
Giovan Battista Vanni, Trionfo di David, 1623, Prato, Museo civico -
Jacopo Vignali, L'angelo custode (dettaglio), 1649, Pisa, Santa Croce in Fossabanda -
Antonio Franchi, Ritratto di Anna Maria Luisa de' Medici, 1689-1691 circa, Firenze, Galleria Palatina
Stile sensuale
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L'esempio di emiliani come Guido Reni, quello di Gianlorenzo Bernini, delle eroine di Artemisia Gentileschi e di Cristofano Allori, furono fondamentali per un'altra caratteristica tipica di molta produzione artistica fiorentina del Seicento: la sensualità, che ebbe il suo apice negli anni tra il 1630 e il 1650, grazie a committenti illustri quali don Lorenzo e Giovan Carlo de' Medici. Largamente apprezzato nelle opere da camera, ma spesso latente anche in opere religiose, l'approccio a figure sensuali più o meno svestite è legato a un gusto classicista, lontano dalla visione manierista che offrivano sculture come quelle di Giambologna, ma sempre giocato sul filo dell'illecito. Ne fu protagonista Francesco Furini, che conosceva direttamente Bernini, e che promosse una pittura fluida e colorista, che rivela la sua fiorentinità solo nel nitore delle composizioni ben bilanciate. A lui va il merito anche di aver frenato gli orpelli decorativi, limitati a pochi dettagli, come si può notare in una delle sue opere più significative, Ila e le ninfe (1633), dove a prevalere è la carrellata di corpi nudi sullo sfondo di un torbido cielo notturno, con un elaborato intreccio delle braccia e citazioni colte, come la schiena dell'Ermafrodito dormiente, visto a Roma; in questo insieme il vaso metallico al centro in basso, più che una concessione all'ornato, acquista la valenza di un simbolo aracno.
Simile per esiti, ma con uno stile più influenzato dalla pennellata fluida di Cecco Bravo, fu Simone Pignoni, che tra gli anni 1650 e 1660 aprì gradualmente la sua pittura al barocco, moltiplicando i punti di luce, gli effetti atmosferici, i piani diagonali. Sua allievo fu Francesco Botti, nelle cui migliori opere queste componenti sono accentuate, rese vorticosamente.
A questo filone partecipò anche Cesare Dandini, pur essendo di diversa estrazione, che rifiutava il decorativismo "fiorito", promuovendo uno stile più definito nel disegno, ma trasudante una sensualità quasi maliziosa, come nei ritratti della cantrice e cortigiana Checca Costa. La sua tavolozza risente dell'onda lunga del Cinquecento, dal Bronzino in poi, pur aggiornata a una sensibilità più moderna. Un artista simile, dalla chiara resa luministica, fu Ottavio Vannini. Dipinsero figure raffinatamente sensuali molti altri, tra cui lo stesso Cigoli, Giovanni Bilivert e il Ficherelli.
Le protagoniste di queste pitture fiorentine appaiono comunque come figure sempre eteree ed eleganti, silenziose, destinate a una committenza colta ed esigenze, ben lontane dalle popolane romane o bolognesi di altri pittori coevi, e per questo estranee a tratti troppo naturalistici o dirompenti.
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Simone Pignoni, Maria Maddalena, 1660 circa, Firenze, ospedale di Santa Maria Nuova -
Cesare Dandini, Rinaldo impedisce il suicidio di Armida, 1635, Firenze, Uffizi -
Ottavio Vannini, Battesimo di Cristo (dettaglio), 1626-27 circa, Nantes, Musée des Beaux-Arts -
Giovanni Bilivert, Angelica si cela a Ruggero (dettaglio), 1624 circa, Prato, palazzo Alberti -
Felice Ficherelli, Maddalena penitente, 1650 circa, collezione privata
Gli apporti degli stranieri
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Negli anni 1618-1621 Cosimo II de' Medici diffuse un gusto apertamente favorevole alle novità caravaggesche, invitando personalmente pittori quali Battistello Caracciolo o Theodoor Rombouts, o portando in città opere di Bartolomeo Manfredi e Gerrit van Honthorst. Ciò ebbe alcuni effetti diretti su alcuni artisti locali, come alcune opere dagli eccezionali squarci luminosa di quegli anni di Jacopo Vignali (Cristo mostra le piaghe a san Bernardo di Chiaravalle, 1623, chiesa dei Santi Simone e Giuda), o di alcuni senesi come Rutilio Manetti e Bernardino Mei. Tuttavia il gusto caravaggesco, turbinoso e iperralista, subì anche battute d'arresto clamorose, come il rifiuto della Resurrezione di Cecco del Caravaggio per la chiesa di Santa Felicita, da parte del committente Piero Guicciardini.
Dal 1620 alla morte nel 1637, il fiammingo Giusto Sustermans fu pittore ufficiale della corte medicea. Egli fu celebrato soprattutto come acuto ritrattista, rendendo comune il ritratto a figura intera che, da Tiziano in poi, era divenuto una prerogativa dei regnanti europei. Stilisticamente guardò a Pourbous, e alle composizioni di Rubens e Van Dyck, suoi conterranei che conobbe personalmente.
Per quanto toscano di nascita, Pietro da Cortona sviluppò il suo stile a Roma, diventando uno dei padri della pittura barocca. Fu invitato a più riprese a Firenze a decorare alcune sale di palazzo Pitti a partire dal 1637 (Sala della Stufa) e fino al 1647 (Sale dei Pianeti). Nel panorama fiorentino abbastanza ancorato allo stile compositivo ordinato, il dinamismo delle opere del cortonese ebbe un forte impatto, che però non venne pienamente recepito degli artisti locali, nonostante il permanere in città del suo stretto callaboratore romano Ciro Ferri. Cercò di adeguarsi Matteo Rosselli in alcuni soggetti che prevedessero un maggior movimento delle figure, ma forse l'unico artista capace di assimilarne la lezione fu il Volterrano, come si vede nell'ampio ciclo di affreschi dei Fasti medicei (dipinti a più riprese tra il 1636 e il 1648).
Nel 1639 il veloce passaggio del veronese Pietro Liberi suggellò, con l'affresco al centro della volta dell'oratorio dei Vanchetoni, l'interesse per i committenti locali per la veduta da sott'in sù, già praticata dai pittori locali (Poccetti, Passignano, Giovanni da San Giovanni, ecc.) all'inizio del secolo su ispirazione da parte delle opere romane di Giovanni e Cherubino Alberti. Stile che fu ampiamente praticato nell'affresco anche da altri fiorentini, quali il Volterrano, Lorenzo Lippi e Cecco Bravo.
Verso il 1640 i bolognesi Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli portarono novità nella decorazione degli interni ad affresco, all'insegna delle quadrature illusionistiche che dilatavano lo spazio, e che segnarono un'evoluzione del gusto cittadino in questo genere fino ada allora dominato dallo stile a grottesche e spartizioni in riquadri figurati di Bernardino Poccetti, Michelangelo Cinganelli e rispettivi seguaci. Fu influenzato da questo nuovo stile architettonico il fiorentino Jacopo Chiavistelli, che fu protagonista della decorazione ad affresco su ampie superfici nei decenni dal 1650 al 1690 circa.
Tra il 1641 e il 1648 circa fu a Firenze anche il napoletano Salvator Rosa, che qui visse un periodo particolarmente fecondo della sua attività, stimolato positivamente da un vivace ambiente culturale. A lui va il merito di aver portato in Toscana un'elevazione della pittura di genere, che divenne amatissima dalle élite cittadine. In particolare sviluppò un modo coinvolgente ed evocativo di dipingere il paesaggio (ispirato da quanto aveva visto prima a Roma), con un punto di vista ribassato e la ricerca di effetti atmosferici e pittoreschi con elementi incombenti e quinte in ombra misteriosa, che ebbe influenza anche nella pittura di battaglia. A Firenze inoltre, ispirandosi alle bizzarrie del Callot, del Buontalenti, di Jacopo Ligozzi e di Filippo Napoletano, esplorò nuovi temi tra cui le "stregonerie" o "stregozzi", ossia dipinti sul mondo della stregoneria e dell'occulto, spesso intonati a tinte fosche e popolate di minacciosi esseri mostruosi.
Sempre in quegli anni, lavorarono per il principe Matthias de' Medici il fiammingo Livio Mehus, artefice di una visione tenebrosa e cupa del baroco veneto, e Jacques Courtois, detto il Borgognone, autore di turbinose scene di battaglia che ebbero ampia eco.
Tra il 1681 e il 1685 fu a Firenze anche Luca Giordano. L'artista partenopeo, noto per la sua versatilità e speditezza, ricevette una grande quantità di commissioni da alcune delle più importanti famiglie cittadine, dove poté dimostrare l'adesione ma anche il superamento del cortonismo, all'insegna di composizioni in spazi indefinitamente ampi, caratterizzate da una dilagante luminosità e da figure in bilico tra reale e fantastico.Il suo esempio fu recepito, tra gli altri, da Pier Dandini, protagonista della grande decorazione per i Medici a cavallo fra Sei e Settecento.
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Giusto Sustermans, Ritratto di Ferdinando II de' Medici, 1627 circa, Cardiff, National Museum of Wales -
Volterrano, Cosimo I associa al governo il figlio Francesco, 1636-1646, Firenze, villa medicea della Petraia -
Agostino Mitelli e Angelo Maria Colonna, affreschi della sala dell'Udienza Privata negli appartamenti estivi di palazzo Pitti, 1640 -
Pietro Liberi, Stemma mediceo, 1639, Firenze, oratorio dei Vanchetoni -
Salvator Rosa, Scena con streghe (dettaglio), 1645-49 circa, Cleveland, Cleveland Museum of Art -
Luca Giordano, Minerva protettrice delle Arti e delle Scienze, 1682-1685, Firenze, palazzo Medici Riccardi, Galleria degli Specchi
Nature morte
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La tradizione fiorentina legata alla pittura di storia e alla figura umana sempre lasciò poco spazio allo sviluppo della pittura di genere: non si può dire che la natura morta rivestì, nel Seicento, un'importanza e un successo pari a quello riscontrato a Roma o a Napoli: essa ebbe esiti limitati nella quantità, ma di altissima qualità.
Alla fine del Cinquecento, quando questo genere iniziò ad affermarsi, a Firenze si diffusero due indirizzi: uno legato agli interessi scientifici di Francesco I de' Medici, che ebbe come valido illustratore il veronese Jacopo Ligozzi, capace di applicare un nitore nordico ai suoi disegni; un altro legato all'interesse per le curiosità e rarità naturali ispirato dalle pubblicazioni di Ulisse Aldrovandi, a cui si può far risalire l'arrivo in città di opere come il Bacco del Caravaggio, con la sua natura morta legata a valori simbolici e allegorici.
Nel secondo decennio del Seicento questo genere ebbe slancio per gli interessi di Cosimo II e di suo fratello, il cardinal Carlo, verso la pittura olandese e romana, facendo arrivare in città varie opere e artisti come Filippo Napoletano, autore tra l'altro di opere cristalline come le Due conchiglie o i Due cedri, nelle collezioni di Palazzo Pitti.
Tra secondo e terzo decennio si registra l'esordio di Jacopo da Empoli in questo genere, con le note Dispense, che ricordano i bodegones spagnoli, con un gusto però più enciclopedico, dove la rappresentazione naturalistica di tutti i tipi di frutta o di carne sembra alludere a un augurio di abbondanza. Al decennio successivo risalgono altre incusioni occasionali, ma di altissima qualità, nel genere, quali la Natura morta con rose, asparagi, peonie e garofani di Giovanni Martinelli (oggi al Museo della natura morta di Poggio a Caiano), anche in questo caso un'opera isolata sì, ma dall'ineccepibile bilanciamento compositivo e dall'eccezionale resa pittorica delle varie superfici; oppure gli "emblemi" per gli accademici nelle pale dell'Crusca, dipinte da Lorenzo Lippi, che colpiscono per la sintesi e l'efficacia della rappresentazione; o ancora i due Germani o la Fiasca di Cesare Dandini, opere che non sfigurano accanto a quelle dei migliori artisti transalpini; o ancora qualche decennio dopo le eccelse deviazioni dalle opere religiose di Carlo Dolci, con composizioni di fiori rese con brillantezza e cura lenticolare del dettaglio.
Negli anni Quaranta si registra un primo specialista fiorentino di questo genere, Agnolo Gori, in un periodo in cui i Medici fecero arrivare a Firenze molte opere straniere di questo genere. Negli stessi anni, dal 1642 al 1651, fu in città la specialista della natura morta su pergamena, la marchigiana Giovanna Garzoni che, amata dalle granduchesse, realizzò una serie di opere con vari frutti, fiori, animaletti e insetti, che spicca ancora oggi per freschezza e inventiva.
Nella seconda metà del secolo si registrò il massimo interesse per questo genere, con artisti quali Andrea Scacciati e Bartolomeo Bimbi che produssero molte opere che sono valide sia come illustrazione scientifica che come campionatura delle rarità. I loro lavori, che appaiono come un'originale contaminazione tra stilemi romani, fiamminghi e fiorentini, furono ricercati e promossi da Cosimo III dal 1670 in poi, che le usò come arredo peculiare di intere ville, come quella della Topaia.
- Jacopo Ligozzi, Paeonia officinalis, 1577-87 circa, Firenze, GDSU
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Filippo Napoletano, Due conchiglie, 1617-21 circa, Poggio a Caiano, Museo della natura morta -
L'Empoli, Dispensa con testa e piede di porco, testa di vitello e selvaggina, 1621, Firenze, Uffizi -
Giovanni Martinelli, Natura morta con rose, asparagi, peonie e garofani, anni 1640, Poggio a Caiano, Museo della natura morta -
Giovanna Garzoni, Piatto con ciliege e garofani, 1655-62 circa, Firenze, Galleria palatina -
Carlo Dolci, Bambin Gesù con una corona di fiori (dettaglio), 1663, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza - Bartolomeo Bimbi, Uve, 1700, Poggio a Caiano, Museo della natura morta
Verso il Rococò
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A partire dall'epoca di Cosimo III, granduca dal 1670 al 1723, le arti a Firenze presero una decisa svolta verso forme più tardobarocche, anticipatrici del rococò, grazie a una serie di iniziative con cui la casa regnante e l'aristocrazia cittadina indirizzarono il gusto, come la creazione dell'Accademia granducale a Roma (attiva dal 1673 al 1676) o il supporto ad artisti stranieri come Luca Giordano.
Nell'ultimo quarto del secolo fecero da figure trainanti nella pittura il Volterrano, che per primo aveva impostato ampie composizioni dinamiche (si ricordi come esempio di questa sua fase finale l'enorme affresco nella cupola della Santissima Annunziata) e Jacopo Chiavistelli, che diffuse le ampie quadrature architettoniche apprese dai bolognesi Mitelli e Colonna. Fu un prolifico seguace del Volterrano Cosimo Ulivelli, artista richiestissimo ma che oggi si considera come artefice di un irrigidimento dei modelli offerti dal suo maestro, ma che tuttavia portò avanti il gusto per la decorazione ad affresco di ampio respiro scenografico.
La nuova generazione, di Pier Dandini, di Anton Domenico Gabbiani, di Alessandro Gherardini e, in misura minore, di Atanasio Bimbacci e Giuseppe Nicola Nasini, rinnovò decisamente la scuola locale, seppur con diversi indirizzi.
Pier Dandini, che ebbe modo di studiare dal vero i grandi maestri veneziani come Tintoretto e Veronese, ma anche il Correggio a Parma, fu autore di opere ariose ma dalla pennellata corposa, caratterizzate da vivacità narrativa e fluidità. Verso il finire del secolo, in opere come la Gloria della Trinità e tutti i santi per la cappella Nuova della villa della Petraia (già usata come camera da letto da Cosimo III), mostra una tavolozza schiarita e una padronanza nell'articolare le numerose figure senza schematismi, che è già pienamente rococò.
Anton Domenico Gabbiani si formò invece sugli esempi di Pietro da Cortona (attraverso l'alunnato diretto presso Ciro Ferri a Roma) e Carlo Maratta, e nella sua opera mantenne sempre una "misura" toscana, fatta di chiarezza compositiva in cui le figure, come su un palcoscenico, sono sempre ben distinte tra protagonisti, gregari e comparse. Le sue scene allegoriche e mitologiche, come quelle affrescate per il gran principe Ferdinando nella palazzina della Meridiana (Il tempo e le Arti esaltano la Scienza e calpestano l'Ignoranza), mostrano un classicismo immerso in ambientazioni arcadiche con luce schiarita, che rappresentano un'altra anticipazione dello stile che andrà per la maggiore nel Settecento.
Il senese Giuseppe Nicola Nasini, dopo essere stato stipendiato dal Granduca all'Accademia romana, risiedette alcuni anni a Firenze, lasciando alcune opere ben esemplificative dello stile in voga in quegli anni, come i soffitti a palazzo Medici Riccardi (oggi nella biblioteca Moreniana) e in palazzo Del Chiaro, in cui le vorticose composizioni, scorciate per la visione da sott'in su, mostrano scene articolate, ricche di personaggi, vortuosismi pittorici e una tavolozza schiarita, arricchita di toni inconsueti (come i violetti, i verdi salvia, gli arancioni) tipicamente senesi.
Più estroso fu Alessandro Gherardini, che dopo il consueto viaggio di studio nel Nord Italia, tornò a Firenze e seppe coniugare la vena più bizzarra, anche ironica e scanzonata di certa pittura fiorentina, con lo stile morbido e sfumato del Furini o di Cecco Bravo e la leggiadria compositiva e pittorica del Giordano. Lavorò a grandi imprese decorative per i Medici e per altre importanti famiglie, come nei palazzi Corsini, Orlandini del Beccuto, Tolomei-Biffi ecc., in cui mostrò la padronanza per la narrazione continua di figure concatenate, il virtuosismo negli scorci, la pennellata ariosa ma robusta, ma anche un'insuperabile attenzione al dettaglio sfarzoso, capace di rivaleggiare coi numerosi "specialisti" di genere.
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Volterrano, Assunzione della Vergine tra tutti i santi e profeti (dettaglio), 1680-83, Firenze, Santissima Annunziata -
Cosimo Ulivelli, Gloria dei santi Agostino e Monica, 1700 circa, Firenze, chiesa di Santa Monica - Jacopo Chiavistelli, quadrature del salone, 1680 circa, Firenze, palazzo Pucci
- Anton Domenico Gabbiani, Apoteosi di Cosimo il Vecchio (dettaglio), 1698, Poggio a Caiano, villa Medicea
- Giuseppe Nicola Nasini, Ercole nel giardino delle Esperidi, 1691 circa, Firenze, palazzo Medici Riccardi
- Atanasio Bimbacci, Scene mitologiche, 1691-95 circa, Firenze, palazzo Franceschi
Scultura
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La scuola del Giambologna
| ]Anche per la scultura a Firenze, lo studio del Seicento non può prescindere dalle esperienze maturate negli ultimi decenni del Cinquecento, in particolare legate alla personalità del Giambologna, il cui retaggio, portato avanti da abilissimi seguaci (primo fra tutti il carrarese Pietro Tacca), continuò ad essere influente ben oltre la sua morte (nel 1608) e pose un limite all'arrivo in città delle novità più eclatanti, legate al lavoro di Gianlorenzo Bernini a Roma. Gli stessi scultori toscani più originali, quali Francesco Mochi, Michelangelo Naccherino o lo stesso Pietro Bernini, padre di Gianlorenzo, trovarono successo solo fuori dalla regione.
A Giambologna va il merito di aver portato in Toscana alcuni generi a lui familiari (praticati nella zona delle Fiandre da cui proveniva), quali il bronzetto, la scena contadinesca di genere (spesso in piccolo formato) e i soggetti animali (si pensi alla grotta di Castello), oltre alla ripresa della scultura su scala monumentale, soprattutto con la celebre serie dei monumenti equestri. Queste opere non solo furono richieste dai committenti locali, compresa la casa regnante dei Medici, ma divennero una vera e propria moda europea, compresi i ritratti colossali a cavallo che, fusi a Firenze, presero poi la via delle grandi capitali come Parigi e Madrid. Un'opera esemplare dello stile giambolognesco sono i Quattro Mori per la darsena di Livorno fusi da Pietro Tacca in un lungo arco di tempo dal 1607 al 1626 circa. Questi poderosi ritratti di prigionieri, di grandezza superiore al vero, mostrano un'accurata indagine fisiognomica, verismo anatomico, dinamicità nelle pose e passionalità di sentimenti, pur percorrendo strade ben diverse da quelle che in quegli stessi anni Bernini sperimentava a Roma.
L'importanza del Tacca come maestro del bronzo, la ebbe Pietro Francavilla nel marmo. Pure uscito dalla bottega del Giambologna, eseguì nei primi decenni del Seicento alcune opere indipendenti che ebbero larga influenza, come la Primavera (poi collocata sul ponte Santa Trinita), il Mercurio ricco di simboli esoterici (palazzo Pitti) o l'Orfeo per il giardino dei Gondi a Parigi (oggi al Louvre). Fu con un suo allievo, Giovanni Battista Caccini, che la statuaria toscana iniziò ad affrancarsi dall'eredità del Giambologna. Il suo stile, elegante e misuratamente eclettico, supera gli stilemi del manierismo per indirizzarsi verso un purismo che si adattava ai dettami della Controriforma.
La generazione successiva, formatasi proprio su questo esempio, fu quella di Gherardo Silvani, Agostino Ubaldini e Chiarissimo Fancelli, che parteciparono a vasti cantieri quali l'altare maggiore di Santo Spirito, la decorazione del giardino di Boboli, la produzione di busti dei regnanti richiesti dai privati per omaggiarli nelle loro dimore.
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Pietro Francavilla, Mercurio con la testa di Argo, 1604, Firenze, palazzo Pitti - Giovan Battista Caccini, Esculapio e Ippolito, 1590 circa, Firenze, giardino di Boboli
- Giovanni Battista Caccini, Gherardo Silvani e Agostino Ubaldini, ciborio dell'altare maggiore, 1599-1607, Firenze, Santo Spirito
Nuove tendenze nei decenni centrali
| ]Diversa fu la formazione di Felice Palma, arrivato in città al seguito del veneto Tiziano Aspetti, che seppe infondere nelle sue opere, pur su modelli tipicamente toscani, un maggior dinamismo (come nel Giove saettante per il viale di Poggio Imperiale) o una più forte resa psicologica (per i busti-ritratto di monumenti funebri), che richiamano maestri veneti come Alessandro Vittoria e Danese Cattaneo.
Su un filone diverso, originatosi dalle opere bizzarre del Tribolo, di Raffaello da Montelupo, di Orazio Mochi e dello stesso Giambologna, si possono inquadrare le attività di Valerio Cioli, Andrea di Michelangelo Ferrucci e Romolo del Tadda, autori di opere per le grotte artificiali e i giardini, quali mascheroni, figure grottesche, nani e "caramogi" (figure caricaturali), anche in materiali inconsueti come il porfido.
I decenni successivi, tra gli anni 1630 e 1650, ebbero come esponenti di spicco gli scultori Domenico Pieratti e Antonio Novelli, che produssero opere di ispirazione eclettica, ora rivolta all'antico, ora alla tradizione locale, ora alla scuola romana, ma caratterizzate da un accentuato sentimentalismo, che aveva un parallelo nella pittura di Francesco Furini. Sul fronte della produzione del bronzo, nei decenni centrali del secolo spiccarono i figli d'arte della seconda generazione di seguaci del Giambologna, quali Giovanni Francesco Susini e Ferdinando Tacca, quest'ultimo erede dal padre Pietro anche della carica di scultore ufficiale della corte medicea.
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Felice Palma, Giove saettante, 1612 circa, Firenze, viale del Poggio Imperiale - Romolo del Tadda, Tre caramogi (da incisioni di Jacques Callot), 1617-1621 circa, Firenze, giardino di Boboli
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Domenico Pieratti, busto di Louis Hesselin, 1637 circa, Firenze, palazzo Pitti
L'età di Cosimo III
| ]L’esigenza di rinnovare l’arte fiorentina, già avvertita da Ferdinando II de' Medici, trovò pieno compimento con Cosimo III, che nel 1673 istituì a Roma un’Accademia toscana, inizialmente affidata a Ciro Ferri ed Ercole Ferrata, con l’intento di aprire l’arte dei fiorentini alle correnti stilistiche più moderne. Al granduca premeva soprattutto il recupero della magnificenza, e in questa prospettiva considerava imprescindibile la rinascita della scultura su scala monumentale, capace di tradurre in forme plastiche le poderose scene di Pietro da Cortona, che fino ad allora avevano ispirato soltanto opere di piccolo formato, come le statuette di Cosimo Fancelli.
Dall'Accademia granducale a Roma transitò tutta la nuova generazione di artisti, quali Carlo Marcellini, Giovanni Battista Foggini, Francesco Ciaminghi, Giovacchino Fortini, Massimiliano Soldani Benzi, Antonio Francesco Andreozzi e Giuseppe Piamontini, formatisi ai modelli di Bernini, di Ercole Ferrata, di Alessandro Algardi, di François Duquesnoy, di Melchiorre Caffà e, naturalmente, dell'antico. Nel nuovo stile che questi artisti portarono a Firenze si legge una maggiore espressività, capace di suscitare maggiore coinvolgimento dell'osservatore, ottenuta con gesti eloquenti, giochi chiaroscurali, contrasti tra i panneggi complicati e le lisce epidermidi dei personaggi.
Una delle prime nuove realizzazioni in città fu il rifacimento della cappella maggiore di Santa Maria Maddalena de' Pazzi, come sacello per ospitare il corpo della santa fiorentina, su progetto dello stesso Ciro Ferri a partire dal 1674 e fino al 1685. Vi si fondono opere di scultura e pittura raccordate dall eccezionali specchiature marmoree gialle e rosse, che danno all'insieme un tono fiammante pervaso da una calda luce mielata, capace di rievocare le visioni estatiche della religiosa. Il tono variato e polimaterico è evidenziato dai bassorilievi in bronzo dorato (che rievocano le storie in vita della santa) contornati da angeli in marmo del Marcellini, e dalla straordinaria arca bronzea infiorata (oggi nel monastero di Careggi) di Giovanni Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi. Una seconda importante realizzazione fu la Cappella Corsini al Carmine (dal 1683), nei cui altari, ornati per la prima volta a Firenze da pale marmoree ad altorilievo, si celebrava la vita di un altro recentemente canonizzato santo fiorentino: Andrea Corsini. Qui il Foggini e il Marcellini manifestarono uno stile innovativo, più dinamicamente coinvolgente grazie anche ai forti effetti di luce e chiaroscuro.
Nei primi anni novanta, la stessa squadra, col Soldani, il Piamontini, lo stuccatore Giovanni Battista Ciceri, Carlo Loth per la pala e altri, lavorò alla cappella Feroni all'Annunziata, un formidabile scrigno di architettura, scultura polimaterica e scultura. Sculture e stucchi costruiscono un ritmo ascensionale che trova nella piccola ma decoratissima cupola il suo culmine, con la luce proveniente dalla lanterna che sembra invitare a elevarsi verso l'alto.
A questo punto l’arte scultorea aveva raggiunto un livello tale da soddisfare pienamente gli ideali di Cosimo III, al punto da poter essere impiegata come strumento di rilievo negli scambi diplomatici e culturali. In questa prospettiva si inserisce la realizzazione dell’arca di san Francesco Saverio per Goa, nelle Indie portoghesi, commissionata dal granduca a Giovanni Battista Foggini e ai suoi collaboratori.
In quegli stessi anni la scultura in bronzo assunse un ruolo di primaria importanza, sia nelle grandi opere monumentali sia nella ripresa del bronzetto su piccola e media scala, cui si dedicarono Massimiliano Soldani Benzi, lo stesso Foggini e Carlo Marcellini, ottenendo risultati di straordinaria eleganza formale, in cui il dinamismo si unisce alla tipica capacità compositiva fiorentina, dando vita a opere destinate a un’ampia diffusione internazionale.
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Carlo Marcellini, Putti e storie di santa Maria Maddalena de' Pazzi, ante 1684 -
Giovanni Battista Foggini e Massimiliano Soldani benzi, urna del corpo incorrotto di santa Maria Maddalena de' Pazzi, entro il 175, Firenze, monastero delle carmelitane di Careggi - Giovan Battista Ciceri su disegno del Foggini, cupola della Cappella Feroni, dal 1693, Firenze, Santissima Annunziata
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Giovanni Battista Foggini, Francesco Ciaminghi e Giuseppe Antonio Torricelli, monumento a san Francesco Saverio, 1686-1695, Goa (India), basilica di Bom Jesus - Giuseppe Piamontini, Giove sconfigge i giganti, 1705, Firenze, palazzo Spini Feroni
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Massimiliano Soldani Benzi, Venere e Adone, 1715–1716, Los Angeles, Getty Center
Architettura
| ]In architettura gli artisti della corte fiorentina proseguirono la strada di un manierismo a tratti esuberante e a tratti classicista (Bernardo Buontalenti, Gherardo Silvani, Giulio e Alfonso Parigi), tenendo fuori dalla regione un vero e proprio estro barocco. Rappresentarono un'eccezione solo alcune ville legate al gusto di cardinali e aristocratici che bene conoscevano la scena romana: tra le più importanti il Cetinale nei dintorni di Siena, villa Rospigliosi nel pistoiese, villa Torrigiani presso Lucca.
Arti decorative
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Fino a tutto il primo quarto del Seicento Firenze fu l'unica città italiana ad avere attiva un'arazzeria. Fondata dai Medici, l'arazzeria Medicea seppe rinnovare nel corso del Seicento il suo repertorio, ricorrendo a cartoni predisposti dai pittori più in voga, adattandosi anche a nuovi temi come la quadratura o la natura morta di fiori e altro.
Altra manifattura promossa dalla corte e ben apprezzata in tutta Europa fu quella del commesso fiorentino dell'Opificio delle pietre dure, fondata da Ferdinando I de' Medici nel 1598, che riportò in auge l'opus sectile di origine romana, cioè quegli intarsi di pietre colorate, scelte per colore, grana e sfumatura, affettate, levigate, scontornate e infine composte a creare composizioni figurate su pannelli, ripiani per tavoli, paliotti o altro. Orientata subito verso un repertorio locale, con disegni spesso forniti dai maggiori maestri, la produzione otteneva effetti di particolare vividezza in generi come la rappresentazione di fiori, festoni ed altri elementi, in grado di rivaleggiare con la pittura stessa. La pietra offriva anche risvolti simbolici di perennità, che ben si adattavano alle pretese di eternità della dinastia medicea. Gradualmente questo genere si aprì a includere scene di genere, paesaggi e bizzarrie in linea col gusto contemporaneo e con gli apporti degli stranieri.
La manifattura ceramica più importante nella Toscana del XVII secolo fu quella di Montelupo Fiorentino. Dalla produzione istoriata del XVI secolo nacque il decoro montelupino sicuramente più famoso, ossia i secenteschi "Arlecchini", raffigurazioni satirico-naif dei personaggi allora più famosi e temuti, i Lanzichenecchi al soldo di Carlo V. Alla fine del Seicento, dopo che fu terminata la produzione di splendidi manufatti per le farmacie fiorentine dei domenicani di San Marco e di Santa Maria Novella, iniziò il lento ma inesorabile declino della produzione ceramica. Soltanto grazie alla produzione di "pentole" di Capraia la tradizione sopravvisse durante i secoli successivi.
Al tempo di Cosimo III (1670-1723) vi fu un'ancor maggiore promozione delle più svariate tecniche artistiche, tese a celebrare la magnificenza della casata regnante. Dall'uso delle pietre semipreziose in castoni sospesi nelle opere come i reliquiari o gli arredi di Giovanni Battista Foggini, all'arte del cammeo con Giuseppe Antonio Torricelli, dai mirabolanti intagli di Vittorio Crosten alle medaglie celebrative del Soldani o del Fortini. Fiorì per un breve periodo anche l'arte della scagliola, grazie all'arrivo in città di Carlo Ghibertoni da Carpi, fuggiasco in patria per aver commesso un omicidio, e che trovò riparo a Firenze dal 1690 circa, realizzando il suo capolavoro nell'oratorio di San Tommaso d'Aquino verso il 1695.
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Arazzeria Medicea, su disegno attribuito ad Agostino Melissi, Fortezza, 1653-54, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana - Maiolica di Montelupo, piatto con due figure, 1620-40 circa , Firenze, palazzo Davanzati
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Giovanni Battista Foggini, Giuseppe Antonio Tonelli, Cosimo Merlini il giovane, Pietro Motti, Adam Suster e Cristofano Vincler, reliquiario di Sant'Ambrogio (dettaglio), 1705, Firenze, Cappelle Medicee - Giuseppe Antonio Torricelli, Profili di Vittoria della Rovere e Ferdinando II de' Medici, 1680-1700 circa, Londra, Victoria and Albert Museum
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Vittorio Crosten, lampadario monumentale della villa la Topaia, 1697, Firenze, palazzo Pitti -
Massimiliano Soldani Benzi, medaglia di Francesco Redi, verso con corteo bacchico, 1684, Firenze, Bargello -
Carlo Francesco Ghibertoni da Carpi, pannelli in scagliola, 1695 circa, Firenze, San Tommaso d'Aquino
Note
| ]- Rodolfo Maffeis in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 61-80.
- ^ Richard Goldthwaite, La costruzione della Rirenze rinascimentale, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 80.
- Richard Goldthwaite, cit., pp 81-82
- Mina Gregori in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 9-20.
- Chiara d'Afflitto in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 81-98.
- Mina Gregori in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 155-164.
- ^ Scheda su Treccani, su treccani.it.
- Elisa Acanfora in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 45-60.
- ^ Sala dell'Udeinza privata, palazzo Pitti, su uffizi.it.
- Riccardo Spinelli in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 181-200.
- ^ AA.VV., "Filosofico umore" e "maravigliosa speditezza". Pittura napoletana del Seicento dalle collezioni medicee, Firenze, Giunti, 2007, p. 170. ISBN 9788809054103
- ^ Luca Giordano. L'opera completa, pp. 77-104
- Novella Barbolani di Montauto in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 119-125.
- Sandro Bellesi in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 29-44.
- Mara Visonà in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 165-180.
- Mara Visonà in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 201-217.
- ^ Rosa Giorgi, Il Seicento, Electa, Milano 2006.
- ^ Annamaria Giusti in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 107-116.
- Lucia Meoni in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 138-142.
- ^ Fausto Berti, Storia della ceramica di Montelupo, uomini e fornaci in un centro di produzione dal XIV al XVIII secolo, Montelupo Fiorentino, Aedo, 1997-2003, vol. I, p. 37.
- ^ Medardo Pellicciari in Storia delle arti in Toscana, il Seicento, pp. 143-145.
Bibliografia
| ]- AA.VV., Il Seicento fiorentino (3 volumi), Firenze, Cantini, 1986.
- AA.VV., Storia delle arti in Toscana, il Seicento, Firenze, Edifir, 2001. ISBN 88-7970-119-3
- Sandro Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del '600 e '700. Biografie e opere, Polistampa 2009. ISBN 978-88-596-0625-3
- Pittura barocca
- Cultura a Firenze
- Storia di Firenze
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